"Ciao
Laura 13 luglio 2016
L’altro
giorno al corso ci hanno fatto fare un gioco simpatico, ci hanno divisi per
nazionalità, per continenti, per figura professionale e poi ci hanno chiesto
tre cose per cui eravamo fieri di essere quello che siamo e come, secondo noi,
ci vedono gli altri. Io non sono mai stata estremamente patriottica, il mio
rapporto con l’Italia è abbastanza ipocrita e privo di senso. Quando sono a
casa non faccio altro che sottolineare e notare e sospirare davanti a
comportamenti che classifico superbamente come italiani, ma quando sono
all’estero li esaspero, li faccio miei e non faccio altro che rispondere con
boria che sono italiana, che noi mangiamo bene, che quello che bevete voi non è
caffè, che facciamo casino con i soldi, con la politica, con tutto ma che ce lo
possiamo permettere perché siamo comunque il paese più bello del mondo. Ora,
mentre cercavo di pensare a cose non banali per cui essere fiera del mio paese,
cose che non fossero l’arte, il cibo, la cultura, mi martellava in testa solo
la parola ospitalità. Mi perdo come al solito a pensare alle mie cose, torno
ancora una volta a Lampedusa,torno in mare mare.
Monto ancora una volta sulla solita nave, è Luglio, ci sono trentacinque
gradi che ribollono sul pontile. Siamo vestiti in divisa, senza scarpe
antinfortunistiche perché qualcuno mi ha detto “guarda che se vai in acqua vai
a fondo con quelle”. Non che abbia mai pensato di mettermele sul serio, odio le
divise, odio essere obbligata a vestirmi come dicono loro, odio rappresentare
qualcuno che non sia me stessa. Sudo, in quei pantaloni d’ordinanza, me li
strapperei di dosso. Esco fuori a prendere un po’ di vento e a fumare una
sigaretta contro vento, sono sei ore che navighiamo verso la Libia, abbiamo
passato da poco le piattaforme petrolifere, di notte sono belle, di giorno
sembrano ridicole, con quel focherello che brucia in cima. C’è qualche barca
tunisina che si vede da lontano. A Febbraio hanno sparato, da quel giorno tutte
le motovedette della guardia costiera sono armate e escono in due, ma non ci
avviciniamo comunque troppo. Vedo un puntino che brucia all’orizzonte, qualcuno
mi dice che deve essere un barcone in fiamme. “Speriamo di trovare ancora
qualcuno vivo”, mi dice, mentre ci avviciniamo. Ci sono taniche di benzina che
galleggiano, l’acqua è sporca, del barcone non è rimasto nulla, solo uno
scheletro nero che ride sull’acqua. Non va a fondo, penso, non c’è nessuno,
penso, solo giubbotti salvagente che nuotano intorno ai pezzi di legno.
Troppo
tardi, penso.
Alla radio ci dicono che c’è un
altro target poco lontano, ci dicono che dobbiamo andare. Ci rimettiamo in
navigazione, stavolta rimango fuori, il vento fa bene, asciuga le lacrime e
porta via i pensieri. Mi obbligano a vestirmi, prima i copri scarpe, poi la
tuta in tyvek, poi i guanti, poi lo scotch intorno ai guanti, infine la
mascherina. Con tutta sta roba addosso perdo circa 1 kg ogni 45 minuti, cosa
non proprio sicura quando lavori in spazi minuscoli in mezzo al mare. Se c’è
qualcosa che odio più della divisa forse è sta tuta da palombaro che il
ministero della salute e il mio governo mi obbligano a mettermi. So che devo
farlo, ma il mio animo polemico non mi evita di pensare a quanto sia inutile
infilarsi tutta sta roba senza formare per esempio i ragazzi della guardia
costiera a toglierselo in maniera sicura una volta finito il lavoro. Vedo da
lontano il barcone, vedo settecento persone che si sbracciano, urlano,
piangono, si spingono. Vedo settecento paia di occhi che ci guardano, che
chiedono aiuto, c’è gente che si arrampica sopra gli altri, corpi su corpi,
mani tese, centinaia di colori e fazzoletti e umido e sporco. Ci avviciniamo,
dobbiamo farli stare calmi, altrimenti il barcone si rovescia e sappiamo già
che quasi nessuno sa nuotare. Chiedo se
qualcuno sta male, lo faccio prima in inglese e poi in francese, urlo per
superare il rumore. Mi indicano qualcuno accasciato tra i piedi, non riesco a
vederlo, c’è troppa gente, troppo rumore, troppo odore. Ecco, se devo pensare a
qualcosa che mi ricorda il mare è l’odore. Qualcosa di mai sentito, qualcosa
che sa di umanità e cotto e acqua salata e vestiti sporchi e benzina e
bruciato. Lo senti da chilometri di distanza un barcone se il vento è buono.
Ancora adesso mi si stringe lo stomaco, quando sento qualcosa che assomiglia a
qualcosa del genere, tipo in qualche campo per i rifugiati di qualche sperduto
paese africano dimenticato da Dio. Ma non ha niente a che vedere con quello che
ho visto e sentito in mare, questo è l’odore della paura. Che odore ha la
paura? E la speranza? E i sogni? Ecco, credo sia proprio questo qui, un misto
di umanità, fatica, dolore e lacrime bruciate dal sole.
Comunque, i ragazzi della Guardia Costiera
riescono a far passare sulla nostra barca il ragazzo che sta male. Lo portiamo
dentro, lo copriamo, è stato picchiato, ha la pancia piena di sangue,
probabilmente ha la milza rotta, ha gli occhi come due bottoni neri, mi guarda,
mi dice come si chiama, gli dico che andrà tutto bene, non è vero, ma serve a
tutte e due pensarlo. Va evacuato, penso, non ci arriva a Lampedusa, penso.
E mi muore in mano, mentre gli sto parlando
per tenerlo sveglio. Mi guarda con quegli occhi a bottone e rimane lì, appeso,
con quell’espressione imbambolata. Ci affondo i miei in quei bottoni, me ne
vado sul pontile a fumare, non abbiamo niente per rianimarlo, non c’è spazio,
non c’è niente da fare, a parte rimanere lì con la solita impotenza che ormai
abita sulla mia spalla. Esco e penso agli altri, dobbiamo guardarli, dobbiamo
vedere se c’è qualcun altro che sta male, qualche donna incinta, devo guardare
le pance e le mani per la scabbia. Tanti tirano su la maglietta, alcuni hanno
scritto un numero di telefono sulla canottiera fradicia, molti hanno segni di
frustate e bruciature di sigarette, alcuni piangono, altri ridono e
ringraziano. Finisco il lavoro e mi siedo, adesso posso piangere uno dei tanti
morti del mare, uno senza nome, uno senza volto, un migrante, un figlio di
nessuno. Tanto intabarrata come sono in questa tuta non mi vede nessuno. Quasi
quasi la rivaluto un po’, anche se sto morendo di caldo.
Mi metto a
pensare all’ospitalità, alla duplice valenza che ha in questo contesto. C’è quella
che noi diamo a questa gente, critiche a parte sul sistema di accoglienza e
quella che loro danno a noi, rendendoci testimoni di quello che vivono. Quando
siamo ospiti, entriamo in casa di qualcuno in punta dei piedi, educatamente,
chiedendo il permesso. Non lo facciamo solo quando siamo a nostro agio, magari
a casa di qualche amico che conosciamo da una vita, quelle in cui rispondi
“sono io al campanello”, quelle in cui entri e chiedi un caffè e ti butti con i
piedi sul divano appena entri. Ecco, qui, in mare, io mi sento sempre ospite
quando guardo questa gente, quando entro a far parte degli ultimi istanti di
vita di qualcuno, quando, senza bussare, partecipi a uno dei più grandi drammi
che segnerà la loro vita. Il senso di responsabilità è opprimente, siamo
testimoni di violenze, a volte vittime e aggressori sono sulla stessa barca, a
volte denunciamo, a volte ci obbligano a non farlo. Siamo ospiti muti e nudi
delle tragedie degli altri, gli buchiamo il cuore, entriamo nei loro ricordi,
segniamo le loro vite.
Poi c’è
l’ospitalità che di base offriamo che è diversa da quello che poi sarà a terra.
Quello che succede in mare è un’altra cosa, non ha niente a che vedere con
protezioni e commissioni e SPRAR e CIE e tutti quegli acronimi che fioccano da
qualche anno. Quello che avviene in mare è la cosa più umana e sana che possa
esistere, tu sei in pericolo, noi cerchiamo di tirartene fuori e poco ci
importa da dove vieni, se la tua storia regge, se hai soldi, se sei bianco,
nero, verde o giallo, se scappi da una guerra o vieni solo perché qualcuno ti
ha detto che l’Europa è il paese dei balocchi, in mare si è tutti uguali. E non
c’è niente di più bello e più vero."