11 novembre 2016

Arte Padova


11 - 14 novembre 2016

27a   Mostra mercato d'Arte Moderna e Contemporanea 




C.A.T.S.  Arte Padova 
Contemporary Art Talent Show

    La Torena Arte
Padiglione 1  - Stand 106
in itinere 
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2016





arbitrio 2
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2016

fuori
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marea
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2016



cats-arte-padova
.facebook Laura Serafini Art

07 ottobre 2016

ottobre con l'artista

ottobre con l'artista
Laura Serafini
Bella di Ceciliano    Bed and Breakfast di Charme
1/31 ottobre 2016

Giacomo e Betty, due persone amanti dell'arte e della bellezza insite in ogni aspetto della loro vita ospitano  per tutto il mese di ottobre alcune mie opere nel loro Bed and Breakfast da sogno.
Ottobre con l'artista, è il loro progetto di accogliere per  un mese all'anno le opere di un'artista nelle stanze della residenza ed io ho l'onore di essere la prima.
Voglio ringraziare Bella di Ceciliano per aver accolto il mio lavoro tra le sue antiche mura e per aver contribuito alla realizzazione del mio nuovo catalogo DERMA 



opere esposte
LUX
70x59


OMBRA °2
31x41

SEGNO
100x60
ROSA DEI VENTI
50x70
PROGETTO (con calma)
60x120










31 agosto 2016

la stanza dell'ospite




DERIVA 50x70
La stanza dell’ospite- Sette artisti raccontano,
 a cura di Elena Merendelli
Palazzo Pretorio, Anghiari (AR)

2/17 settembre 
orario: 10,30-13,00 / 16,30 - 19,30
inaugurazione venerdì 2 settembre ore 18,00
in collaborazione con il Festival dell'Autobiografia


Espongono Fanette Cardinali, Meri Ciuchi, Ilaria Margutti, Daria Palotti, Loretto Ricci, Laura Serafini, Roberta Ubaldi.
La mostra è organizzata all'interno delle iniziative del Festival dell'Autobiografia ( Libera Università dell'Autobiografia)

All’interno di Palazzo Pretorio, stanze, una volta adibite ad accogliere prigionieri e condannati, stanze destinate a custodire cibi preziosi ospitano le installazioni di sette artisti, che accompagnati dalla scrittura, attraverso ceramica, plastica, filo, carta, vetro, ferro, raccontano la Stanza dell’Ospite.
Musiche a cura di 12+ (Giacomo Cioni), tratte da Autothropy (Aut Records 2016).
Installazioni video a cura di Lidia Di Padova Squitieri
Letture inaugurazione a cura di Libera Università dell’Autobiografia, Cooperativa LaRUA, Effetto K.


Un luogo pronto per accogliere. Un luogo per accogliere lo sconosciuto, l’inatteso, l’ignoto. La stanza dell’ospite, presente in molte case di varie culture europee e del mondo, è riparo, luogo pronto, custodito e da custodire, una stanza interna alla casa, al paese, all’accampamento.
Nella scrittura autobiografica e nell’ascolto della storia dell’altro accade di entrare in stanze interne non sempre aperte, ma pronte ad accogliere quanto vi arriva.
Chi si racconta e chi accoglie la storia dell’altro diviene ospite, nella duplice accezione che la lingua italiana attribuisce alla parola: ospite è chi arriva e entra, ma anche chi apre all’altro, allo straniero, le porte della sua casa.
All’origine della parola ospite, c’è un concetto di reciprocità, di scambio, di comunione, perché nell’essere con l’altro, in una relazione circolare, ritroviamo parti di noi, del nostro essere, dell’essere dell’altro e dell’essere insieme. Un essere insieme che genera domande su di sé e sull’altro, che lascia immergere nella complessità della vita umana, ovunque essa sia, da qualsiasi posto essa arrivi.
Ospitare è movimento, è andare verso, è cammino, è viaggio, è un percorso nel quale, alla fine, non importa chi è ospite, perché lo si è, insieme, si coesiste all’interno della stessa parola.
Ospite è qualcuno al quale si va incontro per essere ospite. Racconta il libro della Genesi che Abramo, alle querce di Mamre, corre incontro a tre uomini che arrivano verso le sue tende da lontano, senza sapere chi fossero e li accoglie, permette loro di lavarsi e riposarsi e prepara per loro un ricco pasto. In quell’incontro Abramo ascolta e trova conferme alle promesse che hanno cambiato la sua vita.
L’incontro genera l’inatteso. Genera talvolta domande, strappi, ferite, dolore. Chi e cosa siamo disposti ad ospitare? Quale parte di noi stessi dobbiamo ospitare per poter ospitare l’altro con la sua diversità, con il suo essere straniero, con la sua storia?
Oggi, nella nostra società, essere ospite è una delle dimensioni più difficili da realizzare, costruiamo barriere tutt’intorno a noi stessi, reali e metaforiche, che difficilmente siamo disposti ad abbassare o abbattere.
Oggi, nel mondo, essere ospite è per molti necessità. Lasciare la propria casa, il proprio paese, cercare riparo e custodia per la propria vita e per quella di chi si ama è necessità.
Quali stanze prepariamo per l’ospite? In quali luoghi trova rifugio l’ospite che arriva, ma allo stesso tempo quello che apre le porte?
Quali stanze può creare, ideare, riempire, svuotare l’artista per raccontare le storie di chi è ospite?
Una mostra che apre nuove strade e va incontro, insieme, a molteplici sfide: il modo personale di essere ospite, interpretazioni artistiche generate dai racconti di vita, strade che l’arte può percorrere per narrare la complessità dell’ospitalità dei nostri giorni.
La mostra nasce da una condivisione di idee e di intenti: trovare la strada per dire che alcuni muri si possono abbattere e che l’ospitalità genera nuove contaminazioni e connessioni, che aprono a possibilità future. Una riflessione a più voci scaturita tra persone che condividono la passione per le Storie degli Altri, per la Scrittura, per la Narrazione, per il Teatro, per l’Arte e la Cultura più in generale.
Così come la scrittura, i linguaggi artistici spesso offrono la possibilità di “dire” anche l’indicibile, di porre le persone di fronte al rispecchiamento, di condurle alla sfera emozionale, così che possano arrivare alla comprensione, non sulla scia emotiva, ma ponendosi domande. Così come la scrittura, l’arte produce movimento, smarrimento, incanto e bellezza, che sono necessari per essere “ospite”. 





una mia opera, ospite di una segreta, una stanza dove la magia del recupero sfuma la storia impressa sulle pareti.
E l'opera si fa ospite delle parole di Carlotta Pianigiani, operatrice in contesti di emergenza umanitaria che mi ha accolto  in un frammento della sua vita e  mi ha  portato  con se in  un mare dove si naviga per salvare.

Le parole scritte sono come arte figurativa, hanno una forma, un colore, un peso, a volte anche un odore e come per le opere puoi dargli un'occhiata superficiale o fermarti e lasciare che ti sfiorino l'anima.

In questa stanza si parla di viaggi, per sperare, per cambiare, per conoscersi.
Si parla di ascolto e di attimi sospesi, come istantanee che galleggiano in un tempo che scorre e ci trascina in percorsi sconosciuti.




"Ciao Laura                                                                                                                13 luglio 2016
                                                                                                                          
L’altro giorno al corso ci hanno fatto fare un gioco simpatico, ci hanno divisi per nazionalità, per continenti, per figura professionale e poi ci hanno chiesto tre cose per cui eravamo fieri di essere quello che siamo e come, secondo noi, ci vedono gli altri. Io non sono mai stata estremamente patriottica, il mio rapporto con l’Italia è abbastanza ipocrita e privo di senso. Quando sono a casa non faccio altro che sottolineare e notare e sospirare davanti a comportamenti che classifico superbamente come italiani, ma quando sono all’estero li esaspero, li faccio miei e non faccio altro che rispondere con boria che sono italiana, che noi mangiamo bene, che quello che bevete voi non è caffè, che facciamo casino con i soldi, con la politica, con tutto ma che ce lo possiamo permettere perché siamo comunque il paese più bello del mondo. Ora, mentre cercavo di pensare a cose non banali per cui essere fiera del mio paese, cose che non fossero l’arte, il cibo, la cultura, mi martellava in testa solo la parola ospitalità. Mi perdo come al solito a pensare alle mie cose, torno ancora una volta a Lampedusa,torno in mare mare. 
Monto ancora una volta sulla solita nave, è Luglio, ci sono trentacinque gradi che ribollono sul pontile. Siamo vestiti in divisa, senza scarpe antinfortunistiche perché qualcuno mi ha detto “guarda che se vai in acqua vai a fondo con quelle”. Non che abbia mai pensato di mettermele sul serio, odio le divise, odio essere obbligata a vestirmi come dicono loro, odio rappresentare qualcuno che non sia me stessa. Sudo, in quei pantaloni d’ordinanza, me li strapperei di dosso. Esco fuori a prendere un po’ di vento e a fumare una sigaretta contro vento, sono sei ore che navighiamo verso la Libia, abbiamo passato da poco le piattaforme petrolifere, di notte sono belle, di giorno sembrano ridicole, con quel focherello che brucia in cima. C’è qualche barca tunisina che si vede da lontano. A Febbraio hanno sparato, da quel giorno tutte le motovedette della guardia costiera sono armate e escono in due, ma non ci avviciniamo comunque troppo. Vedo un puntino che brucia all’orizzonte, qualcuno mi dice che deve essere un barcone in fiamme. “Speriamo di trovare ancora qualcuno vivo”, mi dice, mentre ci avviciniamo. Ci sono taniche di benzina che galleggiano, l’acqua è sporca, del barcone non è rimasto nulla, solo uno scheletro nero che ride sull’acqua. Non va a fondo, penso, non c’è nessuno, penso, solo giubbotti salvagente che nuotano intorno ai pezzi di legno. 
Troppo tardi, penso. 
Alla radio ci dicono che c’è un altro target poco lontano, ci dicono che dobbiamo andare. Ci rimettiamo in navigazione, stavolta rimango fuori, il vento fa bene, asciuga le lacrime e porta via i pensieri. Mi obbligano a vestirmi, prima i copri scarpe, poi la tuta in tyvek, poi i guanti, poi lo scotch intorno ai guanti, infine la mascherina. Con tutta sta roba addosso perdo circa 1 kg ogni 45 minuti, cosa non proprio sicura quando lavori in spazi minuscoli in mezzo al mare. Se c’è qualcosa che odio più della divisa forse è sta tuta da palombaro che il ministero della salute e il mio governo mi obbligano a mettermi. So che devo farlo, ma il mio animo polemico non mi evita di pensare a quanto sia inutile infilarsi tutta sta roba senza formare per esempio i ragazzi della guardia costiera a toglierselo in maniera sicura una volta finito il lavoro. Vedo da lontano il barcone, vedo settecento persone che si sbracciano, urlano, piangono, si spingono. Vedo settecento paia di occhi che ci guardano, che chiedono aiuto, c’è gente che si arrampica sopra gli altri, corpi su corpi, mani tese, centinaia di colori e fazzoletti e umido e sporco. Ci avviciniamo, dobbiamo farli stare calmi, altrimenti il barcone si rovescia e sappiamo già che quasi nessuno sa nuotare.  Chiedo se qualcuno sta male, lo faccio prima in inglese e poi in francese, urlo per superare il rumore. Mi indicano qualcuno accasciato tra i piedi, non riesco a vederlo, c’è troppa gente, troppo rumore, troppo odore. Ecco, se devo pensare a qualcosa che mi ricorda il mare è l’odore. Qualcosa di mai sentito, qualcosa che sa di umanità e cotto e acqua salata e vestiti sporchi e benzina e bruciato. Lo senti da chilometri di distanza un barcone se il vento è buono. Ancora adesso mi si stringe lo stomaco, quando sento qualcosa che assomiglia a qualcosa del genere, tipo in qualche campo per i rifugiati di qualche sperduto paese africano dimenticato da Dio. Ma non ha niente a che vedere con quello che ho visto e sentito in mare, questo è l’odore della paura. Che odore ha la paura? E la speranza? E i sogni? Ecco, credo sia proprio questo qui, un misto di umanità, fatica, dolore e lacrime bruciate dal sole.
 Comunque, i ragazzi della Guardia Costiera riescono a far passare sulla nostra barca il ragazzo che sta male. Lo portiamo dentro, lo copriamo, è stato picchiato, ha la pancia piena di sangue, probabilmente ha la milza rotta, ha gli occhi come due bottoni neri, mi guarda, mi dice come si chiama, gli dico che andrà tutto bene, non è vero, ma serve a tutte e due pensarlo. Va evacuato, penso, non ci arriva a Lampedusa, penso. 
E mi muore in mano, mentre gli sto parlando per tenerlo sveglio. Mi guarda con quegli occhi a bottone e rimane lì, appeso, con quell’espressione imbambolata. Ci affondo i miei in quei bottoni, me ne vado sul pontile a fumare, non abbiamo niente per rianimarlo, non c’è spazio, non c’è niente da fare, a parte rimanere lì con la solita impotenza che ormai abita sulla mia spalla. Esco e penso agli altri, dobbiamo guardarli, dobbiamo vedere se c’è qualcun altro che sta male, qualche donna incinta, devo guardare le pance e le mani per la scabbia. Tanti tirano su la maglietta, alcuni hanno scritto un numero di telefono sulla canottiera fradicia, molti hanno segni di frustate e bruciature di sigarette, alcuni piangono, altri ridono e ringraziano. Finisco il lavoro e mi siedo, adesso posso piangere uno dei tanti morti del mare, uno senza nome, uno senza volto, un migrante, un figlio di nessuno. Tanto intabarrata come sono in questa tuta non mi vede nessuno. Quasi quasi la rivaluto un po’, anche se sto morendo di caldo.  
Mi metto a pensare all’ospitalità, alla duplice valenza che ha in questo contesto. C’è quella che noi diamo a questa gente, critiche a parte sul sistema di accoglienza e quella che loro danno a noi, rendendoci testimoni di quello che vivono. Quando siamo ospiti, entriamo in casa di qualcuno in punta dei piedi, educatamente, chiedendo il permesso. Non lo facciamo solo quando siamo a nostro agio, magari a casa di qualche amico che conosciamo da una vita, quelle in cui rispondi “sono io al campanello”, quelle in cui entri e chiedi un caffè e ti butti con i piedi sul divano appena entri. Ecco, qui, in mare, io mi sento sempre ospite quando guardo questa gente, quando entro a far parte degli ultimi istanti di vita di qualcuno, quando, senza bussare, partecipi a uno dei più grandi drammi che segnerà la loro vita. Il senso di responsabilità è opprimente, siamo testimoni di violenze, a volte vittime e aggressori sono sulla stessa barca, a volte denunciamo, a volte ci obbligano a non farlo. Siamo ospiti muti e nudi delle tragedie degli altri, gli buchiamo il cuore, entriamo nei loro ricordi, segniamo le loro vite.
Poi c’è l’ospitalità che di base offriamo che è diversa da quello che poi sarà a terra. Quello che succede in mare è un’altra cosa, non ha niente a che vedere con protezioni e commissioni e SPRAR e CIE e tutti quegli acronimi che fioccano da qualche anno. Quello che avviene in mare è la cosa più umana e sana che possa esistere, tu sei in pericolo, noi cerchiamo di tirartene fuori e poco ci importa da dove vieni, se la tua storia regge, se hai soldi, se sei bianco, nero, verde o giallo, se scappi da una guerra o vieni solo perché qualcuno ti ha detto che l’Europa è il paese dei balocchi, in mare si è tutti uguali. E non c’è niente di più bello e più vero."


                                                                                 Carlotta Pianigiani

01 agosto 2016

Ex sistere


"Ex"sistere

dal I al XXX agosto


mostra personale di Laura Serafini
a cura di Giovanni Pichi Graziani

Museo Michelangiolesco
Caprese Michelangelo ( Arezzo )


orario:da lunedì a venerdì 10,00/19,00 sabato e domenica 9,30/1 9,30

Venerdì 19 agosto ore 18,00 inaugurazione ufficiale alla presenza delle autorità.






Un nuovo evento espositivo caratterizzerà l’estate di Caprese. Nel mese di agosto, a rendere omaggio al genio rinascimentale di Michelangelo, sarà infatti Laura Serafini con la sezione più recente della fortunata serie “Mappe”.
Oltre venti dipinti suddivisi nelle tre sale espositive del museo, a cui si aggiungono una istallazione video e serie di schizzi e cianotipie che racconteranno il suo percorso artistico ed esistenziale.
Eleganti nudi si snodano tra catene montuose, pianure e corsi fluviali assecondando i calligrafici tracciati delle mappe. Mai provocatori, i corpi mostrano una bellezza classica, non idealizzata e profondamente umana. Le forme e i colori rievocano gli studi anatomici dei grandi maestri rinascimentali ma sarebbe riduttivo apprezzarli solo per questo.

La mostra personale dell’artista aretina non è semplicemente un insieme di bei dipinti dal sapore accademico, ma un'esperienza, una confessione udibile solo a chi sia disposto ad ascoltarla. Laura Serafini tratteggia così il suo intimo percorso esistenziale uscendo dall'esposizione più nuda di qualsiasi modello che abbia mai ritratto.   
           Marco Botti









Installazione video creata da Elisa Modesti
performer e voice over Flavia Gramaccioni





riproduzioni cianotipo, stampa a mano edizione limitata 1/20









catalogo  "DERMA"



"Si narra che i salici piangenti, ad un certo punto della loro vita, smettano di crescere verso l’alto, arrestino la loro naturale corsa verso il cielo, e inizino a cercare la loro strada nelle viscere della terra, negli strati più profondi del suolo, innervando le loro radici nel terreno scuro e ricco di vita invisibile.......
......Le sue opere, dunque, nascono da un mondo interiore, un mondo che si crea dialogicamente attraverso la ricerca di un codice che raffiguri il proprio spazio, la propria indole, le proprie inclinazioni in un universo cristallizzato dalla potenza ordinatrice della mente umana. Lo spettatore ha la possibilità di scrutare, di guardare, di sentire, e non solo vedere, l’universo dell’artista e, allo stesso tempo, lasciarsi trasportare esattamente lì, lungo le curve, le pieghe e le sezioni nascoste del corpo e del mondo."

tratto dal testo introduttivo del catalogo DERMA 
a cura di Luciferi Fineart Lab 
www.luciferi.it





arte.it mostra Laura Serafini sistere

07 luglio 2016

NEW WORKS 


Down to Art contemporary figurative art
 Gent - Belgium

ARBITRIO
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2016

LAND
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2016

VERUM
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2016



02 aprile 2016

FILOGENESI

FILOGENESI 

Dal 2 al 17 aprile 2016, lo spazio espositivo del Palazzo della Fraternita dei Laici di Arezzo, situato nella splendida cornice di piazza Grande, sarà arricchito dalla mostra “Filogenesi”, collettiva di Arte Contemporanea curata da Antonella Cedro.

Il vernissage si terrà sabato 2 aprile alle ore 15.00 presso il Palazzo della Fraternita dei Laici, in piazza Grande ad Arezzo; in apertura la performance delle artiste Catherina Gynt e Sofia Sguerri. La mostra sarà visibile tutti i giorni dalle 10.30 alle 18.00.

Questa collettiva, unica nel suo genere, prevede la partecipazione di 20 artisti provenienti da Arezzo, Torino, Verona, Ascoli Piceno, Foggia, Palermo e Sassari.

Un unico punto di partenza, uguale per tutti: un pezzo di cotone grezzo, senza intelaiatura, da trasformare come se fosse un gioco, per raggiungere, alla fine, l’obiettivo di unire tanti linguaggi differenti attraverso la cucitura dei tessuti, uno con l’altro, come segno inequivocabile di condivisione collettiva delle emozioni, delle immagini, delle metafore, della storia di ciascuno.
Un’attività che ha portato e porta con sé un particolare impegno da parte di tutti gli artisti, e che si configura anche come un mezzo per liberarsi, oppure no, degli stereotipi legati al proprio stile, alla materia, alla forma, alla dimensione.
Il risultato è l’espressione della potenzialità umana di ciascuno sia come narratore che come lettore/visionario; le opere, cucite insieme con la precisa intenzione di comunicare un messaggio iniziale (quello proposto dal curatore), possono in realtà essere collocate ogni volta in modo diverso, per raccontare qualcosa di nuovo, per suggerire un’altra storia.

Artisti: Mario Bernardini, Giulia Bilancetti, Gianluca Borgogni, Valentino Bruschi, Giustino Caposciutti, Gianpaolo Castiglione, Antonella Cedro, Stefania Cerbini, Corrado Paolo D’Alessandro, Ferdinando Franco, Dalo, Elia Mammina, Jacopo Naccarato, Emilio Patalocchi, Roberto Sanna, Laura Serafini, Sofia Sguerri, Elisabetta Simonti, Luciano Tarasco, Gea Testi.







VISIONARIA
china e carboncino su lenzuolo
2016







18 febbraio 2016





Down to Art contemporary figurative art
 Gent - Belgium

downtoart.be


FULCRO 2
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FULCRO 1
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