31 agosto 2016

la stanza dell'ospite




DERIVA 50x70
La stanza dell’ospite- Sette artisti raccontano,
 a cura di Elena Merendelli
Palazzo Pretorio, Anghiari (AR)

2/17 settembre 
orario: 10,30-13,00 / 16,30 - 19,30
inaugurazione venerdì 2 settembre ore 18,00
in collaborazione con il Festival dell'Autobiografia


Espongono Fanette Cardinali, Meri Ciuchi, Ilaria Margutti, Daria Palotti, Loretto Ricci, Laura Serafini, Roberta Ubaldi.
La mostra è organizzata all'interno delle iniziative del Festival dell'Autobiografia ( Libera Università dell'Autobiografia)

All’interno di Palazzo Pretorio, stanze, una volta adibite ad accogliere prigionieri e condannati, stanze destinate a custodire cibi preziosi ospitano le installazioni di sette artisti, che accompagnati dalla scrittura, attraverso ceramica, plastica, filo, carta, vetro, ferro, raccontano la Stanza dell’Ospite.
Musiche a cura di 12+ (Giacomo Cioni), tratte da Autothropy (Aut Records 2016).
Installazioni video a cura di Lidia Di Padova Squitieri
Letture inaugurazione a cura di Libera Università dell’Autobiografia, Cooperativa LaRUA, Effetto K.


Un luogo pronto per accogliere. Un luogo per accogliere lo sconosciuto, l’inatteso, l’ignoto. La stanza dell’ospite, presente in molte case di varie culture europee e del mondo, è riparo, luogo pronto, custodito e da custodire, una stanza interna alla casa, al paese, all’accampamento.
Nella scrittura autobiografica e nell’ascolto della storia dell’altro accade di entrare in stanze interne non sempre aperte, ma pronte ad accogliere quanto vi arriva.
Chi si racconta e chi accoglie la storia dell’altro diviene ospite, nella duplice accezione che la lingua italiana attribuisce alla parola: ospite è chi arriva e entra, ma anche chi apre all’altro, allo straniero, le porte della sua casa.
All’origine della parola ospite, c’è un concetto di reciprocità, di scambio, di comunione, perché nell’essere con l’altro, in una relazione circolare, ritroviamo parti di noi, del nostro essere, dell’essere dell’altro e dell’essere insieme. Un essere insieme che genera domande su di sé e sull’altro, che lascia immergere nella complessità della vita umana, ovunque essa sia, da qualsiasi posto essa arrivi.
Ospitare è movimento, è andare verso, è cammino, è viaggio, è un percorso nel quale, alla fine, non importa chi è ospite, perché lo si è, insieme, si coesiste all’interno della stessa parola.
Ospite è qualcuno al quale si va incontro per essere ospite. Racconta il libro della Genesi che Abramo, alle querce di Mamre, corre incontro a tre uomini che arrivano verso le sue tende da lontano, senza sapere chi fossero e li accoglie, permette loro di lavarsi e riposarsi e prepara per loro un ricco pasto. In quell’incontro Abramo ascolta e trova conferme alle promesse che hanno cambiato la sua vita.
L’incontro genera l’inatteso. Genera talvolta domande, strappi, ferite, dolore. Chi e cosa siamo disposti ad ospitare? Quale parte di noi stessi dobbiamo ospitare per poter ospitare l’altro con la sua diversità, con il suo essere straniero, con la sua storia?
Oggi, nella nostra società, essere ospite è una delle dimensioni più difficili da realizzare, costruiamo barriere tutt’intorno a noi stessi, reali e metaforiche, che difficilmente siamo disposti ad abbassare o abbattere.
Oggi, nel mondo, essere ospite è per molti necessità. Lasciare la propria casa, il proprio paese, cercare riparo e custodia per la propria vita e per quella di chi si ama è necessità.
Quali stanze prepariamo per l’ospite? In quali luoghi trova rifugio l’ospite che arriva, ma allo stesso tempo quello che apre le porte?
Quali stanze può creare, ideare, riempire, svuotare l’artista per raccontare le storie di chi è ospite?
Una mostra che apre nuove strade e va incontro, insieme, a molteplici sfide: il modo personale di essere ospite, interpretazioni artistiche generate dai racconti di vita, strade che l’arte può percorrere per narrare la complessità dell’ospitalità dei nostri giorni.
La mostra nasce da una condivisione di idee e di intenti: trovare la strada per dire che alcuni muri si possono abbattere e che l’ospitalità genera nuove contaminazioni e connessioni, che aprono a possibilità future. Una riflessione a più voci scaturita tra persone che condividono la passione per le Storie degli Altri, per la Scrittura, per la Narrazione, per il Teatro, per l’Arte e la Cultura più in generale.
Così come la scrittura, i linguaggi artistici spesso offrono la possibilità di “dire” anche l’indicibile, di porre le persone di fronte al rispecchiamento, di condurle alla sfera emozionale, così che possano arrivare alla comprensione, non sulla scia emotiva, ma ponendosi domande. Così come la scrittura, l’arte produce movimento, smarrimento, incanto e bellezza, che sono necessari per essere “ospite”. 





una mia opera, ospite di una segreta, una stanza dove la magia del recupero sfuma la storia impressa sulle pareti.
E l'opera si fa ospite delle parole di Carlotta Pianigiani, operatrice in contesti di emergenza umanitaria che mi ha accolto  in un frammento della sua vita e  mi ha  portato  con se in  un mare dove si naviga per salvare.

Le parole scritte sono come arte figurativa, hanno una forma, un colore, un peso, a volte anche un odore e come per le opere puoi dargli un'occhiata superficiale o fermarti e lasciare che ti sfiorino l'anima.

In questa stanza si parla di viaggi, per sperare, per cambiare, per conoscersi.
Si parla di ascolto e di attimi sospesi, come istantanee che galleggiano in un tempo che scorre e ci trascina in percorsi sconosciuti.




"Ciao Laura                                                                                                                13 luglio 2016
                                                                                                                          
L’altro giorno al corso ci hanno fatto fare un gioco simpatico, ci hanno divisi per nazionalità, per continenti, per figura professionale e poi ci hanno chiesto tre cose per cui eravamo fieri di essere quello che siamo e come, secondo noi, ci vedono gli altri. Io non sono mai stata estremamente patriottica, il mio rapporto con l’Italia è abbastanza ipocrita e privo di senso. Quando sono a casa non faccio altro che sottolineare e notare e sospirare davanti a comportamenti che classifico superbamente come italiani, ma quando sono all’estero li esaspero, li faccio miei e non faccio altro che rispondere con boria che sono italiana, che noi mangiamo bene, che quello che bevete voi non è caffè, che facciamo casino con i soldi, con la politica, con tutto ma che ce lo possiamo permettere perché siamo comunque il paese più bello del mondo. Ora, mentre cercavo di pensare a cose non banali per cui essere fiera del mio paese, cose che non fossero l’arte, il cibo, la cultura, mi martellava in testa solo la parola ospitalità. Mi perdo come al solito a pensare alle mie cose, torno ancora una volta a Lampedusa,torno in mare mare. 
Monto ancora una volta sulla solita nave, è Luglio, ci sono trentacinque gradi che ribollono sul pontile. Siamo vestiti in divisa, senza scarpe antinfortunistiche perché qualcuno mi ha detto “guarda che se vai in acqua vai a fondo con quelle”. Non che abbia mai pensato di mettermele sul serio, odio le divise, odio essere obbligata a vestirmi come dicono loro, odio rappresentare qualcuno che non sia me stessa. Sudo, in quei pantaloni d’ordinanza, me li strapperei di dosso. Esco fuori a prendere un po’ di vento e a fumare una sigaretta contro vento, sono sei ore che navighiamo verso la Libia, abbiamo passato da poco le piattaforme petrolifere, di notte sono belle, di giorno sembrano ridicole, con quel focherello che brucia in cima. C’è qualche barca tunisina che si vede da lontano. A Febbraio hanno sparato, da quel giorno tutte le motovedette della guardia costiera sono armate e escono in due, ma non ci avviciniamo comunque troppo. Vedo un puntino che brucia all’orizzonte, qualcuno mi dice che deve essere un barcone in fiamme. “Speriamo di trovare ancora qualcuno vivo”, mi dice, mentre ci avviciniamo. Ci sono taniche di benzina che galleggiano, l’acqua è sporca, del barcone non è rimasto nulla, solo uno scheletro nero che ride sull’acqua. Non va a fondo, penso, non c’è nessuno, penso, solo giubbotti salvagente che nuotano intorno ai pezzi di legno. 
Troppo tardi, penso. 
Alla radio ci dicono che c’è un altro target poco lontano, ci dicono che dobbiamo andare. Ci rimettiamo in navigazione, stavolta rimango fuori, il vento fa bene, asciuga le lacrime e porta via i pensieri. Mi obbligano a vestirmi, prima i copri scarpe, poi la tuta in tyvek, poi i guanti, poi lo scotch intorno ai guanti, infine la mascherina. Con tutta sta roba addosso perdo circa 1 kg ogni 45 minuti, cosa non proprio sicura quando lavori in spazi minuscoli in mezzo al mare. Se c’è qualcosa che odio più della divisa forse è sta tuta da palombaro che il ministero della salute e il mio governo mi obbligano a mettermi. So che devo farlo, ma il mio animo polemico non mi evita di pensare a quanto sia inutile infilarsi tutta sta roba senza formare per esempio i ragazzi della guardia costiera a toglierselo in maniera sicura una volta finito il lavoro. Vedo da lontano il barcone, vedo settecento persone che si sbracciano, urlano, piangono, si spingono. Vedo settecento paia di occhi che ci guardano, che chiedono aiuto, c’è gente che si arrampica sopra gli altri, corpi su corpi, mani tese, centinaia di colori e fazzoletti e umido e sporco. Ci avviciniamo, dobbiamo farli stare calmi, altrimenti il barcone si rovescia e sappiamo già che quasi nessuno sa nuotare.  Chiedo se qualcuno sta male, lo faccio prima in inglese e poi in francese, urlo per superare il rumore. Mi indicano qualcuno accasciato tra i piedi, non riesco a vederlo, c’è troppa gente, troppo rumore, troppo odore. Ecco, se devo pensare a qualcosa che mi ricorda il mare è l’odore. Qualcosa di mai sentito, qualcosa che sa di umanità e cotto e acqua salata e vestiti sporchi e benzina e bruciato. Lo senti da chilometri di distanza un barcone se il vento è buono. Ancora adesso mi si stringe lo stomaco, quando sento qualcosa che assomiglia a qualcosa del genere, tipo in qualche campo per i rifugiati di qualche sperduto paese africano dimenticato da Dio. Ma non ha niente a che vedere con quello che ho visto e sentito in mare, questo è l’odore della paura. Che odore ha la paura? E la speranza? E i sogni? Ecco, credo sia proprio questo qui, un misto di umanità, fatica, dolore e lacrime bruciate dal sole.
 Comunque, i ragazzi della Guardia Costiera riescono a far passare sulla nostra barca il ragazzo che sta male. Lo portiamo dentro, lo copriamo, è stato picchiato, ha la pancia piena di sangue, probabilmente ha la milza rotta, ha gli occhi come due bottoni neri, mi guarda, mi dice come si chiama, gli dico che andrà tutto bene, non è vero, ma serve a tutte e due pensarlo. Va evacuato, penso, non ci arriva a Lampedusa, penso. 
E mi muore in mano, mentre gli sto parlando per tenerlo sveglio. Mi guarda con quegli occhi a bottone e rimane lì, appeso, con quell’espressione imbambolata. Ci affondo i miei in quei bottoni, me ne vado sul pontile a fumare, non abbiamo niente per rianimarlo, non c’è spazio, non c’è niente da fare, a parte rimanere lì con la solita impotenza che ormai abita sulla mia spalla. Esco e penso agli altri, dobbiamo guardarli, dobbiamo vedere se c’è qualcun altro che sta male, qualche donna incinta, devo guardare le pance e le mani per la scabbia. Tanti tirano su la maglietta, alcuni hanno scritto un numero di telefono sulla canottiera fradicia, molti hanno segni di frustate e bruciature di sigarette, alcuni piangono, altri ridono e ringraziano. Finisco il lavoro e mi siedo, adesso posso piangere uno dei tanti morti del mare, uno senza nome, uno senza volto, un migrante, un figlio di nessuno. Tanto intabarrata come sono in questa tuta non mi vede nessuno. Quasi quasi la rivaluto un po’, anche se sto morendo di caldo.  
Mi metto a pensare all’ospitalità, alla duplice valenza che ha in questo contesto. C’è quella che noi diamo a questa gente, critiche a parte sul sistema di accoglienza e quella che loro danno a noi, rendendoci testimoni di quello che vivono. Quando siamo ospiti, entriamo in casa di qualcuno in punta dei piedi, educatamente, chiedendo il permesso. Non lo facciamo solo quando siamo a nostro agio, magari a casa di qualche amico che conosciamo da una vita, quelle in cui rispondi “sono io al campanello”, quelle in cui entri e chiedi un caffè e ti butti con i piedi sul divano appena entri. Ecco, qui, in mare, io mi sento sempre ospite quando guardo questa gente, quando entro a far parte degli ultimi istanti di vita di qualcuno, quando, senza bussare, partecipi a uno dei più grandi drammi che segnerà la loro vita. Il senso di responsabilità è opprimente, siamo testimoni di violenze, a volte vittime e aggressori sono sulla stessa barca, a volte denunciamo, a volte ci obbligano a non farlo. Siamo ospiti muti e nudi delle tragedie degli altri, gli buchiamo il cuore, entriamo nei loro ricordi, segniamo le loro vite.
Poi c’è l’ospitalità che di base offriamo che è diversa da quello che poi sarà a terra. Quello che succede in mare è un’altra cosa, non ha niente a che vedere con protezioni e commissioni e SPRAR e CIE e tutti quegli acronimi che fioccano da qualche anno. Quello che avviene in mare è la cosa più umana e sana che possa esistere, tu sei in pericolo, noi cerchiamo di tirartene fuori e poco ci importa da dove vieni, se la tua storia regge, se hai soldi, se sei bianco, nero, verde o giallo, se scappi da una guerra o vieni solo perché qualcuno ti ha detto che l’Europa è il paese dei balocchi, in mare si è tutti uguali. E non c’è niente di più bello e più vero."


                                                                                 Carlotta Pianigiani

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